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VIVERE E MORIRE A 4000 METRI.
Si inerpica senza ritegno quel serpente di strada che dal fondo valle non smette di salire verso il destino della mia Missione, al filo dei 4000 metri.
Ti accoglie il freddo di quelle altezze, che ti penetra nelle ossa come un’offesa al tuo coraggio di andarci a vivere. Una nebbia intensa, perenne compagna dei tuoi giorni, in questo tempo d’inverno, ti aggredisce non appena ti lasci alle spalle la cittadina di Pujili’.
Dopo un’ora di strada, nella desolazione del nulla tempo di meditazione mentre attraversi sul tuo scomposto veicolo le ampie distese di quelle sterili lande, incominciano ad affiorare le prime “choze”, le capanne di terra dai tetti di paglia, dove si ostina a cercare di “sopravvivere la vita” di questi poveri “indios”.
Vai meditando, immerso nel silenzio di una natura senza voce e senza vita, sulle ragioni dell’esserci.
Anch’io mi ostino testardamente a vivere lassu’; e non m’importa l’avere nulla o quasi; avro’ in ogni modo sempre qualcosa piu’ di loro!; e questo privilegio lo sento come un’umiliazione. Ho pero’ la mente attenta e il cuore caldo da offrire come speranza a questi poveri che il Signore mi ha affidato, chiedendomi di farmi loro compagno di viaggio.
Come camminano questi indios! Non li intaccano le ragioni del tempo, che ha ancora per loro una dimensione a noi ormai gia’ sconosciuta. Ore e ore lungo sentierini tracciati solo dall’uso, verso le loro misere capanne, costruite non si sa come a quelle altezze, dove annidano i condor. Vanno, con ai piedi uno stivaletto di gomma da quattro soldi - quei pochi di loro che se lo possono permettere -, o con i piedi protetti solo dalle callosita’ generate sulla loro pelle dall’usura del tempo - i piu’ -; e si avventurano verso casa, (supponendo con questo eufemismo di poter regalare un briciolo di dignita’ al misero tugurio, e tentare di farne, almeno virtualmente, un focolare).
Dicevo: si inerpicano in mezzo al fango, su su, senza mai cadere, fatti equilibristi dall’esperienza di tutta la vita. Sulle spalle ricurve portano un sacco di patate sottosviluppate o “denutrite” quanto loro stessi - ironia della sorte -, o di orzo, o un mazzo di cipolle, che e’ quanto questa natura avara ha regalato per la sopravvivenza loro e dei loro figli.
E’, la loro storia, una sfida lanciata all’esigente avventura del vivere. La vita non si sa bene se sia per loro un dono o un castigo. Credo che la considerino un tempo da percorrere in compagnia di un rassegnato fatalismo, che da sempre ha annidato nel loro subconscio, condottovi dalla infinita notte del loro tempo senza luce.
Assisto, da anni ormai, allo snodarsi della vita loro, alla ricerca di una ragione che la giustifichi, con in cuore la frustrazione di una speranza che si rinnova ad ogni sorgere del sole e che non si vede germogliare mai.
Il ritmo del susseguirsi delle stagioni e del rinascere dei giorni, scandisce il passo della loro squallida esistenza dove il loro risveglio precede sempre l’arrivo dell’alba. Chissa’ se in questo sorgere di un altro giorno qualcosa di nuovo succedera’!?
Vado loro incontro nelle comunita’ disperse, dove il Signore mi invia e fin dove le mie forze, ogni giorno sempre piu’ limitate e offese dal tempo, mi permettono di giungere.
Ho percorso sui sentieri della loro solitudine, della loro sofferenza, della loro orgogliosa tenacia e della loro ostinazione a non cedere, ben piu’ della meta’ della mia vita e quasi tutti gli anni del mio sacerdozio.
Ho assitito infinite volte, accanto alle loro famiglie, al miracolo del nascere e alla rassegnazione del morire.
Mai ho ceduto alla tentazione del distacco o della indifferenza di fronte all’uno o all’altro evento. Ho vissuto costantemente con intensa emozione il mistero della vita e della morte; ne ho gioito e pianto con loro in ogni tempo.
Mi lascio tuttora contagiare dalla loro visione della vita. La vita e’ un fatto della storia, un evento che il tempo propone loro e che essi vivono illuminandolo con una fede un tanto fatale.
Schiacciati dal peso di una ininterrotta fatica che li supera, e senza sosta li affligge, perdono facilmente la loro lotta per la vita e muoiono giovani (troppo, ahime’!).
Commentavo con alcuni di loro, un giorno, la sofferenza del lungo tribolare, dell’inesorabile destino che li condanna ad una ingiusta fatica, senza un legittimo riconoscimento al diritto di una benche’ minima e povera retribuzione, e mi manifestavano il loro atteggiamento consacratorio del loro lavoro dall’alba al tramonto, senza pausa e mi dicevano che avrebbero continuato il loro sofferto cammino “mientras Dios preste la vida” ...
Cosi’ l’ho fatta mia anch’io questa loro filosofia (o teologia che dir si voglia!).
“Fin tanto che Dio ci presta la vita”, loro, i campesinos, ed io, ne facciamo offerta.
Anch’io quindi ho chiesto ai miei superiori di regalarmi il tempo di vivere con gioia gli ultimi anni di vita che Dio voglia prestarmi , accanto a questi indios.
Vedo, giorno dopo giorno, come la mia presenza diventa un segno di speranza.
Vivere e morire a 4000 metri acquista ora per me un sapore diverso se vissuto in comunione con i miei poveri e se lo illuminano la speranza e la pace.
Don Pio, 2009