CAPITOLO 2º - LA
“ROMERÍA” (*)
Gli indigeni delle Ande ecuatoriane
erano arrivati a stabilire con la natura –
durante ormai vari secoli di martoriata storia –
una relazione di amore-odio, un patto di non
aggressione e di convivenza pacifica, non esente, di
quando in quando, da qualche sgarbo vicendevole, nei
momenti in cui gli uni o l’altra avevano la luna
di traverso e allora si tenevano il broncio per un
po’, come una coppia di sposi.
Fu uno di questi momenti che mi vide protagonista,
accanto agli indios delle 3 comunità lese: Tigua
Centro, Yaguartoa e Chami, agli inizi del mese di
novembre del 1973, in una singolare avventura religiosa
che vi sto per raccontare.
Non saprei dire che screzi fossero sorti e che cosa
avesse offeso in quell’occasione la natura, tanto
da indurla a vendicarsi con i campesinos castigandoli
così severamente.
Il fatto è che era passato da un po’ il primo
ottobre, giorno in cui tutti, di concerto, avevano
sparso nei campi la semente dell’orzo, affidando
ad ogni manciata di grano, di cui si privavano con
pena, la speranza di raccogliere a suo tempo il 30, o
il 60 o – chissà mai?! - magari anche il 100 per
1 evangelico.
Illusione, soprattutto quest’ultima! Mai
succedeva in una terra sfruttata ad oltranza e mai
fatta oggetto del benchè minimo dono di una manciata di
concime per la sua fertilità. Erano terre di pendío,
terre dalle misere dimensioni, avvizzite, direi quasi,
sfruttate anch’esse all’eccesso come i loro
miserabili padroni. Di questo suolo sfinito, ogni
famiglia campesina custodiva gelosamente una povera
porzione.
Quando si giungeva in vista del territorio, al filo dei
4000 metri, arrivando dalla città, dopo ore di
sballottamenti, per quel serpente di strada che non la
smetteva mai di salire, e si arrivava alla curva di
“wayra pungu” “la porta del
vento”, come l’avevano battezzata nella
loro lingua Kichua, si poteva osservare con uno sguardo
d’insieme tutto il panorama. Nascevano
immediatamente allora inquietanti pensieri alla
costatazione dell’indigenza collettiva che
significava quel mosaico di appezzamenti che si
arrampicavano sui fianchi della montagna con audacia
quasi temeraria.
Gli indios campesinos di lassù, affidavano le loro vite
a quella povera terra, pregandola tacitamente di
farsene carico. Raccontavano alla loro terra, in
momenti di segreta devozione, come in un rito
domestico, la storia dolorosa e le ragioni della loro
presenza a quelle altitudini. Sentivano che la terra li
ascoltava, perchè era la loro “pacha mama”
la “madre terra” e come una madre amorosa
li aveva accolti lassù, esposti al freddo e alle
intemperie di quel clima ostile, che decimava i loro
bambini sul nascere. Erano arrivati lassù quando la
prepotente e violenta ingordigia di invasori intrusi
aveva stabilito il diritto di proprietà su quelle
regioni che non erano mai state loro, dove altri erano
nati e cresciuti, dove altre mani quelle terre avevano
coltivato e il sudore di altre fronti irrorato da
generazioni remote...
Ma tant’è: la prepotenza e l’aggressività
son parte dei mali que annidano in quel
“guazzabuglio del cuore umano”, come lo
definisce un caro autore che amo.
Eran dovuti scappare, abbandonando le loro fertili
terre di fondo valle e rifugiarsi lassù, dove da secoli
ormai si ostinavano con caparbietà a sopravvivere, non
fosse altro che per pochi anni, giacchè in quelle
condizioni il tempo del vivere s’era fatto breve.
Ci toccherà narrare di questo!
Ma riprendo il filo del tema, dopo essermi lasciato
sedurre da queste divagazioni.
Non pioveva da un mese. Il monte che incombeva sulle
loro capanne di fango e paglia e sui loro campi appena
seminati, s’era da tempo incupito.
Imbronciato e offeso, non si sapeva perchè, tornava a
reclamare ancestrali diritti alle sue vittime umane
sacrificali. “Amina Urku” si chiamava quel
singolare massiccio che si elevava, fuori del contesto
delle due catene della cordigliera andina, che
attraversavano tutto il paese come una spina dorsale
bifida. Emergeva solitario, l’Amina Urku, quasi a
picco sulle tre comunità indigene, come vigile
guardiano del mondo, come minaccioso padrone e
silenzioso spettatore e arbitro della vita e della
morte di quelle povere popolazioni.
“El cerro está enojado con nosotros, Padre, y
por eso no llueve”, “il monte è
arrabbiato con noi, Padre, e per questo non
piove”, mi dicevano i campesinos.
Si commentava - sottovoce per non risvegliare i ricordi
- che in tempi che si perdevano nella nebbia della
memoria collettiva, aveva ricevuto il terribile
ossequio di vittime umane. Ora non più, però era fin
troppo evidente che incuteva paura e che
nell’inconscio di questi indios, risuonavano
nelle notti di bufera i lamenti strazianti delle
vittime predestinate e restavano presenti le sue
supposte – chiamiamole ironicamente così -
“rivendicazioni salariali”.
Ora che la religione cristiana era stata portata fin
lassù, imposta a viva forza dal diritto che aveva
generato la prepotenza dei conquistatori spagnoli, si
era prodotto un singolare sincretismo. Le antiche
credenze soggiacevano alle nuove forme di culto dovute
al dio cristiano. Gli indios di lassù avevano trovato
il modo di far convivere le due fedi: la pagana dei
padri e la cristiana della storia recente.
Beh, stante tutto ciò, non ci fu verso di convincerli
che la Messa che bisognava celebrare perchè piovesse,
poteva svolgersi in una delle loro cappelle
comunitarie. No, signor! Il monte era arrabbiato ed era
d’uopo rappacificarlo con una Messa sulla sua
cima. Saremmo andati su un sabato mattina, con tutte le
tre comunità. Le polverose statue dei santi, relegate
d’ordinario in qualche angolo buio delle loro
cappelle, si sarebbero incaricati loro di caricarsele
sulle spalle e di far fare loro l’ascensione
perchè “assistessero alla Messa” e
contribuissero con la loro presenza intercessora al
buon esito della causa comune.
Salimmo quindi un sabato mattina. Un sole radiante
pareva smentire le convinte affermazioni degli indios
che mi avevano detto: “E’
un’abitudine andare a dir Messa lassù quando non
piove, Padre. Il prete dice la Messa e quando si
comincia a scendere, già piove”.
Un salita a dir poco “dolorosa”. Io ero
arrivato alla missione da poco tempo e sfidare il filo
dei 5000 per arrivare là dove il cielo aveva posto la
cima dell’Amina Urku esigeva una dose di audacia
che mi dovevo imporre, giacchè da sola non la sentivo
nascere, nonostante avessi solamente da poco superato i
trent’anni. Con un gesto di deferenza speciale, i
campesinos avevano provveduto un cavallo per il padre.
Ma, dopo poche decine di metri, il povero ronzino,
scheletrico e denutrito, si arrendeva al peso notevole
del cavaliere e non ne volle più sapere di procedere.
Mi fece compassione e non volli correre il rischio che
il povero animale crepasse sotto la mia mole, già fin
d’allora consistente: gli concessi
l’indulto!
La salita pertanto fu enorme fatica.
Arrivammo dopo varie ore di sforzo e sudore. Sulla cima
ristretta non c’era posto per tutti; molte donne
si istallarono tutt’intorno lungo il pendío con
in collo le creature più piccole; gli uomini e i santi
– numerosi anche loro – trovarono posto sul
piccolo spiazzo.
Lo spettacolo era impressionante davvero! Io capivo ora
perchè un fascino e un turbamento segreto invadevano
l’anima dei miei compagni indios. Non ne andavo
esente! Il pezzo di creato meraviglioso che da lassù mi
era dato ammirare, elevava veramente lo spirito al
senso dell’arcano. Qualche divinità, certamente,
aveva stabilito lassù il suo regno. “Ci sarà
anche il mio Dio fra di loro?”, mi andavo
chiedendo. Credo ci fosse anche Lui! E lo stavo
chiamando in causa, dal profondo di quella fede ambigua
che tutto associava e faceva d’ogni erba un
fascio, tra antiche credenze, il dio
“Inti”, che in Kichua significa
“Sole”, che non rinunciava a risplendere e
a castigare, a picco su di noi, la nostra presunzione
così poco ortodossa, e gli altri dèi pagani della
storia.
Mentre rivestivo i paramenti per la Messa, cercavo
dentro di me le vie della conciliazione e presentavo al
cielo la giustificazione del mio solidale operare in
quel giorno, ricordando le rogazioni mattiniere per i
campi della gente del mio piccolo paese. La memoria mi
riportava fanciullo allora, e ripercorrevo, con un
sorriso di simpatia per quel bambino che ero stato,
alcuni momenti delle rogazioni nelle quattro
“tempora”, già fossero primaverili o
autunnali. Mi piacevano di più quelle di primavera
inoltrata, con la natura in esplosione. Non ricordo in
quali rogazioni, ma rivedevo con chiarezza alcuni
momenti di quei tempi. Ero chierichetto e mi toccava a
volte aprire la piccola processione per i campi,
portando la croce astile. Compensavo allora la fatica
della levataccia all’alba, concedendomi il
privilegio, cercando di dissimulare la cosa come meglio
potevo, di bacchiare, tra una litania e l’altra,
servendomi della croce che portavo, qualche frutto che
mi tentava e mi faceva l’occhiolino lungo il
tragitto del piccolo corteo. Provavo ben un senso di
colpa per il furto e per quella mezza profanazione
dell’uso della croce, però mi arrivava anche
qualche scappellotto dal prete officiante, che
consideravo assoluzione del delitto e penitenza al
tempo stesso.
Così andavano le rogazioni della mia infanzia di
chierichetto.
Ora lassù, sull’Amina Urku, più o meno si
ripeteva il rituale con gli stessi propositi.
C’erano, oltre al Dio cristiano delle mie
rogazioni antiche, il dio “sole”,
“Inti”, appunto, e gli dèi delle ancestrali
devozioni indie che reclamavano il diritto
all’esistenza nelle coscienze dei campesinos.
Beh! Nemmeno una nube!
Un sole che spaccava le pietre! Bruciava! Io pregavo
che proprio il dio “Inti” si nascondesse un
po’, ma come glielo potevo esigere se era proprio
la principale divinità chiamata in causa per
rappacificare il monte imbronciato?!
La tiravo in lungo la cerimonia, nonostante il caldo,
per dar tempo alla preghiera di mostrarsi efficace e
che facesse apparire all’orizzonte un cenno di
nube...!!!
Ricordavo il 1º libro dei Re. Mi immedesimavo della
parte di Elia sul monte Carmelo; puntavo a rendere
evidente la vera identità del dio cristiano, con il
segno della pioggia invocata. Se non pioveva doveva
essere per mancanza di chiarezza: la nostra fede non
era nè profonda nè definita. A che dio avremmo
attribuito il merito dell’eventuale miracolo? In
un eclettismo assurdo volevamo che coesistessero tutte
le divinità in un solo concerto.
Vi dirò che assai pericolosa scoprivo essere pure la
dovozione ai santi. Quelle statue che con tanta fatica
i miei cari indios si erano sforzati di portare fin
lassù e che giravano in tondo sul cucuzzolo del monte,
finita la Messa, in una singolare scomposta
processione, scoprivo che erano entrati anche loro, per
qualche scorciatoia dettata dalle necessità, nel numero
delle divinità. Insomma, la fede era un concetto legato
alle convenienze e all’opportunismo. Il nostro
Dio e i santi avevano trovato posto anche loro nella
religiosità india, aumentando il numero delle divinità
pagane. Di fronte a tanti bisogni e a tante sofferenze,
che nessuno leniva e che le pastiglie di Finalin o di
Aspirina si mostravano inefficienti a consolare,
potevano gli indios accettare anche la scommessa della
fede cristiana; più o meno con il criterio di una
canzone di Ornella Vanoni che dice, in un determinato
momento: “Proviamo anche con dio, non si sa
mai!”.
Alla fine della fatica mi ero ritrovato lontano dal
profeta Elia, con cui avevo tentato identificarmi. Mi
ritrovavo sconfitto come i profeti di Baal, sudando e
girando sterilmente attorno all’altare
sacrificale!
Ora che iniziavamo la discesa, sentivo la convinzione
degli indios come una minaccia: “Scendendo dal
monte, già comincia a piovere!”, mi avevano
detto. Il mio intervento e la mia rogazione erano stati
un fallimento e la frustrazione degli indios pareva
dover degenerare in qualsiasi momento in un rifiuto
alla mia presenza di pastore, giunto da poco fra loro.
“Ahimè! Qui comincio male!” pensavo. Avevo
adottato quindi una faccia triste di circostanza,
destinata a far vedere che condividevo anch’io la
loro delusione.
Mi si avvicinò allora il dirigente Avelino Tigasi, il
più ostinato e temibile della comunità, per consolarmi
dicendo: “Non si affligga tanto, Padre; a volte
succede che non piove”.
Tirai un sospiro di sollievo.
(*) Il Pellegrinaggio
Cayambe 20 ottobre 2006.
Carissimi amici:
Verso la fine dell’estate ho fatto
l’esperienza di un gruppo di una dozzina di
volontari venuti da lontano, dal Canada del nord, con
la santa voontà di consacrare un tempom anche se breve,
della loro vita al servizio dei poveri. Nobile
proposito davvero! Per una 15ª di giorni rimasero a
prestare il loro sevizio, soprattutto nell’area
medica, ai campesinos del territorio. La nostra
Maternità fu il campo di battaglia. Ci furono una
decina di interventi chirurgici. I nostri amici
canadesi arrivarono carichi di medicinali, strumentale
medico e vestitini per bambini. Il tutto metteva in
evidenza la partecipazione di una più vasta comunità
che li aveva inviati in missione provvisti di tante
cose. L’esperienza fu assai positiva, con qualche
piccolo disguido, trattandosi della prima volta. In
primavera torneranno i medici con un programma di
interventi chirurgici già definiti e predisposti. A
luglio verranno altri volontari per dare una mano in
altre attività a servizio dei campesinos.
Questa esperienza ha portato me a visitare la loro
parrocchia a Edmonton, dove ha piantato le sue tende,
da molti anni ormai – una vita! - questa prospera
comunità italiana. C’era la festa del
“thanksgiving day” che la comunità italiana
celebrava come tutti gli anni, però con una motivazione
nuova: il senso della solidarietà.
La mia prtesenza che il parroco e il consiglio
pastorale avevano voluto intensamente, obbediva proprio
a questo proposito. Al Centro Culturale Italiano di
Edmonton si svolse la cena con più di 500 persone, e in
quel contesto festivo si inserì il racconto delle mie
eroiche gesta!!! E la presentazione ( un po’ in
riassunto) di quanto il Signore mi permetteva
realizzare a beneficio dei poveri, in Ecuador. Fu così
che, al cuore generosoe e ben disposto di quella nobile
comunità giunse, fra tante, l’immagine di due
creature che avevo benedetto il girono prima di
partire.
“Angelo” avevano deciso le nostre
infermiere che si sarebbe chiamato il bambino, finito
all’alba di quel giorno nella nostra Maternità.
Ce l’aveva consegnato la Polizia. La mamma
l’aveva partorito e buttato via! Era stato
trovato per caso, con il cordone ombelicale ancora
sanguinante. I suoi vagiti che si andavano spegnendo ne
avevano denunciato la presenza... Ora era lì, affidato
all’amore tenero delle nostre dottoresse e
infermiere. Rifiutato dalla sua, aveva trovato una
decina di nuove mamme che, intantom insieme alle cure e
all’affetto, gli avevano regalato un nome carico
di significato. Angelo volevano si chiamasse, e con
quel nome lo battezzerò.
L’altra creatura che ho lì, non so ancora come si
chiama. E’ una bambina. Intanto la stiamo
salvando da una infezione generale che le era
sopraggiunta e che aggravava le già preoccupanti
condizioni della creatura affetta da una severa fprma
di cardiopatia: un cuore eccessivamente ingrossato
minacciava la vita di questa tenera bambina che non
compiva l’anno ancora. Aveva ssoluto bisogno di
un intervento chirurgico al cuore. La mamma, uan
giovane indigena che non riusciva quasi ad esprimersi
in spagnolo, l’aveva portata all’ospedale
dei bambini a Quito; ospedale statale da dove era
tornata perchè là non le davano più le medicine: Lei
non aveva un centesimo per pagarle; si era indebitata
oltre i limiti delle sue capacità (quasi nulle!). Ora
con le lacrime agli occhi mi diceva che voleva andare a
casa e che la bambina morisse là, nella sua capanna. Le
dissi di no! Che mi aspettasse; in una settimana sarei
stato di ritorno dal mio viaggio con gli aiuti di tanti
padrini per salvare la piccola.
Alla comunità canadese presentai il caso. Conclusi il
mio intervento facendo palpitare all’unisono il
cuore eccessivamente cresciuto della mia bambina e i
cuori che immaginavo altrettanto grandi degli italiani
di quella comunità canadese. Fu generosa la risposta e
ora penso che potremmo sognare di vedere san la nostra
piccola.
Per ora faccio punto qui per non rimandare alle Calende
greche l’invio di questa mia lettera con i saluti
e l’affetto. Vedo i vostri nomi negli estratti
conto che, con precisione e puntualità mi invia Gianna.
A volte tiro a sorte a quale urgente necessità o
progetto destinare i vostri generosi aiuti:. Stabilisco
delle priorità. E’ sempre una boccata di ossigeno
che mantiene vive tante speranze.
Andiamo a gonfie vele con il progetto di ricupero dei
terreni. Ogni metro di suolo ricupertato porta con sè
il profumo della primavera e carica l’attesa di
frutti abbondanti per la vita dei poveri.
Che bello!!!
Ve ne ringrazio a nome loro.
Intanto vi mando un bacio e le benedizioni del Signore.
Con affetto.
Pio
Cayambe, 24 settembre 2006.
Carissimi amici:
Prende l’avvio , durante la meditazione di questa
mattina, questa lettera per voi. Nasce dalla voglia
grande di incontrarmi di nuovo, in qualche modo, e dal
cruccio, che col passare dei giorni diventa in me
sempre più penoso, di non riuscire a
“staccare” nel ritmo delle mie attività.
È impressionante come van crescendo gli impegni e le
responsabilità! Non riesco a trovare uno scampolo di
tempo per me e per voi.
Mi vien da sorridere pensando che sabato scorso, nella
lunga meditazione che ho proposto ai miei confratelli
della zona nord (Quito, Cayambe, Ibarra) per il ritiro
trimestrale nella mia comunità, tra le altre cose,
mettevo in evidenza la necessità di ricavare di tanto
in tanto questi ritagli di tempo per noi e per la parte
del nostro spirito agitato e distratto. Ma si sa: le
mie prediche le faccio anzitutto per me che ascolto
poco, come i bambini disobbedienti!
Mi sono ridotto, ancora una volta a occupare qualche
minuto dell’ora di meditazione mattutina per dare
forma alle mie riflessioni da consegnare alla storia
e... a voi.
Il 2 luglio mi sono reinserito a pieno ritmo nel flusso
della vita a Cayambe. Molte cose, come sempre succede,
mi attendevano da un mese, e le cose da fare erano
diventate tutte urgenti. Se vi dovessi fare la cronaca
di quello che è successo durante questi due mesi e
mezzo, trascorsi dopo il mio ritorno, riempirei un
libro di discrete dimensioni.
Vi commenterò schematicamente qualche avvenimento.
Ci furono nel mese di luglio due momenti di festa: il
conferimento del titolo di maturità scolastica ai 66
ragazzi della mia scuola “Domenico Savio” e
una settimana dopo a 42 dell’altro programma per
adulti. In questo caso si trattava della prima
promozione di studenti che arrivavano alla maturità.
Una bella soddisfazione per loro e per me che considero
questa attività educativa molto importante, perchè
orientata ad aiutare i più poveri. Si tratta infatti di
campesinos che non hanno avuto la fortuna di potersi
educare. Quando il sabato vedo riempirsi il cortile e
le aule di una massa di più di 800 allieve e allievi,
animati dal desiderio di studiare e sostenuti dallo
spirito di sacrificio che questa proposta comporta, mi
sento gratificato.
La pausa estiva, con le vancanze dei 1200 ragazzi della
scuola “Domenico Savio”, se da un lato è
stata allietata dalla festa della maturità dei ragazzi
dell’ultimo anno, dall’altro ha visto me
immerso nella situazione problematica di un gruppo di
ragazzi dei corsi inferiori, respinti. Ho cercato di
dare loro una nuova opportunità di ricupero, offrendo
la possibilità degli esami di riparazione. Pianti e
lamenti dei ragazzi/e e dei genitori venivano a finire
da me. Ho cercato di aiutare fin dove ho potuto.
Intanto aveva preso il via a Olmedo la costruzione del
centro per gli anziani e i diversamente abili della
parrocchia. Procedono a ritmo serrato i lavori. Sono in
ritardo i finanziamenti dell’Associazione Namastè
– Il Dono. Ho dovuto autoprestarmi un po’
di soldi di altri progetti: Spero di rimettere le cose
in ordine appena arriva il 2º bonifico
dell’Associazione Namastè.
E’ partito un mese e mezzo fa il progetto
“subsolación”, come lo chiamiamo qua.;
leggi: “recupero terreni” che avevamo
definito come importante e alla cui realizzazione
abbiamo destinato i proventi della grande festa
organizzata da Tommaso Cinti e amici il 16 giugno. Mi
fa un piacere enorme vedere la soddisfazione dei
campesinos e la loro entusiasta partecipazione ai
lavori dietro i trattori.
Sabato scorso, 16 settembre, nel pomeriggio, c’è
stata qui da me la concentrazione dei rappresentanti
delle comunita indigene più povere del territorio dove
siamo presenti. Erano più di un centinaio i campesinos
che venivano con le proposte e i progetti studiati
nelle assemblee comunitarie dei loro villaggi. Ora le
abbiamo in mano noi. Dovremo decidere quali sono i
lavori più indispensabili e urgenti e orientare la
nostra attività di appoggio a questi progetti
prioritari. Avremo bisogno di molti aiuti esterni...
Vedremo fin dove saremo in grado di intervenire.
Sabato mattina – come vi dicevo - si sono riuniti
qui a Cayambe una ventina di Salesiani della zona nord
per il ritiro spirituale trimestrale. A me toccava la
predicazione e l’attenzione ai confratelli.
Faticoso, ma bello!
Ho in programma un viaggio di una settimana a Edmonton,
in Canada, con una tappa fugace negli USA. Mi aspettano
in Canada nella parrocchia salesiana Santa Maria
Goretti, per una festa, (tipo quella di Tommaso) e la
sensibilizzazione missionaria; è prevista la
partecipazione di circa 600 persone. Mi trascinano là
il parroco e tutto il gruppo di medici, infermiere e
qualche impresario che ho avuto qua a fine agosto, 15
giorni, a operare nella nostra clinica-maternità.
Torneranno ad aprile i medici e in estate 2007 un
secondo gruppo di volontari per lavorare un po’
in diverse attività, secondo le competenze, con i
campesinos. E’ stata anche la loro
un’esperienza positiva cui vogliono dare
continuità. L’équipe medica, guidata dal
Professore Di Toppa, otorrinolaringoiatra di prestigio,
ha fatto una settimana di visite specialistiche a più
di 200 pazienti e una decina di interventi chirurgici.
Sono stati qua 15 giorni anche gli amici Poeschl dalla
Baviera. Son delle persone squisite. E’ sempre
una grande gioia poter stare un po’ con loro.
Avevano il tempo limitato e troppi impegni pressanti.
Visitare in poco tempo tutti i progetti che loro
sostengono, diventa allora uno stress.
Comunque, andiamo avanti con energia ed entusisamo.
L’entusiasmo nasce dalle sofferenze combattute e
vinte! Apro le porte e il cuore a tante miserie! A
lottare sono sempre pronto. Non c’è tempo allora
per considerazioni sulla necessità del riposo o il
calcolo. E’ sempre gratificante veder rinascere
la speranza nelle persone che disperavano e sentivano
la vita come un castigo. Veder trasformare la tristezza
e le lacrime nella gioia e nel sorriso, compensa dei
sacrifici fatti e dei costi che l’operazione ha
significato. I poveri troveranno sempre un posto nel
mio cuore, soprattutto i bambini.
Abbiamo dovuto affrontare ultimamente un caso che è
finito su tutti i giornali e in tutti i canali
televisivi nazionali. Una mamma di 16 anni e il suo
convivente di 23, avevano un bambino di 2 mesi.
Piangeva spesso il piccolo (non è difficile capirlo,
date le miserevoli condizioni in cui vivevano). Il
padre della creatura, infastidito, l’ha
scaraventato contro il muro. L’abbiamo denunciato
e il piccolo l’abbiamo “ricostruito”!
Rotte le costole, il bacino, la testa...! Ora
l’abbiamo in custodia. Mi fa una tenerezza che
non vi dico!
E con questo che vi racconto, inevitabilmente il mio
pensiero si porta alle infinite situazioni di
sofferenza, di disagio, di disperazione che sono
costretto a vedere e ad affrontare tutti i giorni. Non
mi trattengo a farvene la descrizione. Condivido con
voi, oggi, solo la sconvolgente visione di una creatura
nata e deposta sul tavolo sgangherato della casa. La
trovammo abbandonata, nuda, a morire di freddo e di
fame. La mamma è una povera ragazza invalida, con
ritardo mentale, che ha subito violenza continuamente
(ha così 3 bambini, affidati non so a chi). La ragazza
stava morendo anche lei dissanguata per il parto
difficile, senza assitenza alcuna... Lei
l’abbiamo salvata, la creatura no. Sarà difficile
che mi si cancelli dalla memoria la visione di quello
spettacolo di disumana miseria. Per completare
l’opera, in quella situazione disperata –
un oltraggio sull’altro – erano entrati i
ladri a rubare le ultime misere suppellettili che la
povera ragazza aveva in casa. Quando dico
“casa” sto usando un eufemismo, tanto per
indicare il buco dove viveva...
Beh, carissimi, non dimenticatevi dei nostri poveri. Li
sento più fortemente che mai affidati alle mie cure e
alla nostra comune carità. Ho l’impressione a
volte di non riuscire a resistere di fronte a tante
disgrazie.
Per ora termino qui la mia lettera. Spero di non
lasciar passare molto tempo senza comunicarvi le mie
note.
Un abbaraccio accompagna la benedizione che vi mando di
cuore.
Con affetto .
Pio
Cayambe, martedì 16 maggio
2006.
Cari amici:
E’ passato anche questo fine settimana. Lo
costato con un sentimento misto di pena e di gioia. La
pena – poca realmente - per come passano veloci i
giorni e mi ritrovo a rincorrerli più che ad
attenderli! Il ritmo serrato che mi impone il fare,
mette a nudo una fatica nuova che gli anni depositano
sulle mie spalle, oggi nostalgiche di energie che
furono instancabili un tempo, ed ora assai indebolite,
anche se non ancora spente.
Ma è pure con un senso di gioia che ripasso questi
momenti del fine settimana, più centrato
nell’azione pastorale. Mi sono immerso ancora una
volta nel mistero gioioso della Pasqua per ricavarne
una ispirata motivazione per il mio vivere quotidiano.
Tento sempre che il mistero della Pasqua illumini la
mia vita, mi faccia innamorare ogni giorno di più del
Signore e mi induca ad essere più luminoso ed
entusiasta nel contagiare le persone che mi cercano
continuamente.
E’ storia di tutti i giorni: è un fluire continuo
al mio incontro di tante persone di ogni età e
condizione, il più delle volte alla ricerca di uno
spiraglio di speranza; suppongono che io la debba
incarnare!
Martedì scorso ho riunito la comunità – come
faccio tutti i martedì – e ho invitato il parroco
della chiesa matrice di Cayambe, con il proposito,
soprattutto, di spiegare a lui la mia posizione. Gli
dicevo che non pensasse che io vado a caccia di
matrimoni da benedire o di battesimi da amministrare,
magari con il segreto proposito di avere il beneficio
delle offerte. La ragione della mia chiarificazione sta
nel fatto che questo succede continuamente. Un sacco di
persone vengono a chiedermi che sia io a battezzare i
loro bambini, e tante coppie di fidanzati, che sia io a
benedire le loro nozze.
Io li indirizzo al parroco, soprattutto per ragioni di
giurisdizione (bisogna ben rispettare anche il Diritto
Canonico, ogni tanto!!!). Ma di fronte
all’insistenza, il parroco si vede obbligato a
concedere i permessi. Di una coppia pensavo di essermi
“liberato” con il far presente che in
quella data di giugno, da loro fissata per il
matrimonio, ero fuori sede. La settimana dopo mi
ritornano con la novità che sono andati dal parroco e
han proposto posticipare il matrimonio all’otto
luglio, quando io sarei stato di ritorno!
Ho pensato opportuno allora presentare al parroco anche
un altro aspetto (oltre a quello legale) che varrebbe
la pena prendere in considerazione nella pratica del
nostro ministero pastorale; e cioè: non complicare
tanto le cose ai fidanzati che ancora hanno il vivo
desiderio di iniziare il loro cammino di sposi,
sostenuti dalla grazia del sacramento. Piuttosto,
andare incontro al loro santo proposito con la gioia
condivisa anche da parte nostra. Vi dirò che, per
quanto mi concerne, è per me una vera allegria quella
che mi regala il Signore, quando mi concede la grazia
di essere il segno della sua presenza, o lo strumento
della sua bontà misericordiosa,
nell’amministrazione dei sacramenti.
E così, anche il fine settimana scorso mi ha riservato
alcuni momenti di questa gioia pastorale.
Furono prima due gemellini di 7 mesi portati alla fonte
battesimale dai loro bravi genitori, accompagnati dalla
presenza numerosa delle famiglie e degli amici.
Fu festa vera, proprio come dovrebbe ispirarla sempre
questa nuova nascita, questo dono inimmaginabile
dell’amore del Padre che ci rende figli suoi.
Erano perfettamente identici i due piccoli. Ho chiesto
alla giovane mamma se lei li distingueva senza segni
esterni particolari di identificazione; sì, lei li
riconsceva: mistero dell’amore materno!
Ho avuto poi la visita di una coppia di fidanzati.
Vivono a Quito, ma qualcuno ha detto loro che a
Cayambe, la benedizione del padre Pio è... più
efficace!
Ho dovuto spiegare il dono che Dio vuol fare loro con
la grazia del sacramento, e che l’efficacia
dipendeva da loro che, del matrimonio erano i ministri.
Ma già venivano con le licenze in ordine, tanto del
parroco di Quito, come di quello di Cayambe. Così fu
che non mi son potuto “salvare” neanche
questa volta. Sabato a mezzogiorno: altra gioia
condivisa con loro. La festa di nozze sarà dopo quella
delle prime comunioni dei bambini di una scuola della
città.
Iniziano ora gli impegni delle prime comunioni e delle
cresime, dappertutto. Saranno circa 400 i bambini delle
prime comunioni e circa 300 i cresimandi: profusione di
grazie da custodire e da far crescere e fruttificare.
Sabato stesso poi, alle ore 16:00 c’erano in
programma altri tre battesimi. Tre fratellini: 11 e 9
anni i bambini, allievi della mia scuola, e 15 mesi la
piccola.
Finita la celebrazione, ho intrapreso la quotidiana
tortura per andare a Olmedo, la mia parrocchia, per la
Messa vespertina delle 18:00. Tortura non era,
ovviamente, la Messa, che mi riempie sempre di emozione
e di pace, ma il cammino, così schifoso e malandato che
si arriva a destinazione con i reni a pezzi. Sono 17 Km
di penitenza, lasciati lì dal Signore, credo, per farmi
scontare i peccati passati, presenti e futuri!!!
Senza diritto a nessuna indulgenza!
Anche là mi aspettava un battesimo. Questa volta, però,
non c’era nè festa nè sfarzo. Il battezzando era
un piccolo di 2 anni, vestito come la miseria gli
consentiva: di poveri panni, ma per l’occasione
puliti. Era, la mamma, una campesina sola, senza
famiglia, una ragazza madre di circa 25 anni, che
viveva in una povertà estrema. La madrina una ragazza
giovane di buona volontà, venuta dalla città. Non so
per quali vie le due giovani si fossero conosciute.
Ho devoluto alla mamma del piccolo l’offerta che
la madrina aveva fatto per la Messa e il Battesimo.
Mentre amministravo quell’ultimo Battesimo del
giorno, pensavo alle differenze sociali, alle varie
sfaccettature dell’ingiustizia, che condizionano
la vita di tutti. Mi sentivo però consolato e felice al
pensiero di come il mio Signore, invece, regalava a
tutti questi piccoli, candidati alla figliolanza del
Padre, lo stesso dono generoso della sua grazia e lo
stesso amore senza distinzioni.
Almeno Lui la giustizia la applica per tutti!
Sceso a valle, la sera, dopo le funzioni parrocchiali
vespertine, mi aspettava Elsa, un mamma con le due
figlie di 15 e 8 anni, donna abbandonata dal marito,
attratto da altre avventure. Mi attendeva per una
frugale cena insieme, in una povera e umida abitazione,
al bordo della gora di scarico delle fognature, con i
topi in libertà. Povera cena, però condita dalla loro
gioia (e dalla mia!) di avermi con loro.
Rientrando a casa, a notte fonda, dopo questa
“avventurosa” giornata, non potevo non
passare a rapporto da Lui e ringraziarlo di tanto
affetto di cui mi circonda continuamente...
La domenica comincia alle 5 del mattino... ma questo è
già un altro capitolo della storia... Sarà per
un’altra occasione!
Un abbraccio.
Pio
Cayambe 28 IV 2006.
PENSIERI – continua
... Ripassando i volti dei bambini che amo, riempio
spesso i tempi delle mie meditazioni. Mi trattengo a
ripensare le condizioni pietose della loro esistenza. A
volte credo che l’incoscienza sia
un’opportuna alleata del vivere. Così ho
l’impressione che l’afflizione per le
condizioni infraumane in cui vivono queste creature è
più mia che loro.
Certamente ha molto a
che vedere la visione d’insieme. Il contesto
socio – territoriale in cui la loro vita è
immersa è quello comune: di una povertà senza molte
alternative. E’ per tutti così; e allora anche le
aspirazioni di questi piccoli non vanno oltre la
ricerca delle piccole insignificanti gioie che la vita
all’insegna delle astinenze può offrire loro. Per
le bambine una bambola sciancata e mutilata arrivata
fin lassù raccattata nella discarica municipale. Se la
caricano sulle spalle, avvolta nella loro piccola
“chalina”, il pannolone che tutte le donne
usano, e la curano con una tenerezza innata, evidenza
di una precoce vocazione alla maternità: ma la bambina
deve essere ancora in assai tenera età per rivendicare
il diritto alla ludica funzione della maternità. Appena
arrivano ai 5 o 6 anni si ritrovano ad avere in
successione uno o due fratellini più piccoli di cui
assumere buona parte delle responsabilità. Allora sarà
finito il tempo dei giochi.
Anche i maschietti devono diventare precocemente
adulti: all’affacciarsi il tempo della prima
infanzia, relegano dimenticata, triste,
nell’abbandono nel mondo dei ricordi, la loro
palla di plastica, da tempo senz’alito, fatta
giungere fin lassù, non si sa come, da qualche babbo
natale di passaggio, o il pallone di pezza, pieno di
ernie strozzate da tutte la parti...; e spesso non sono
la cartella e i quaderni i dignitosi sostituti dei loro
giochi infantili, come sarebbe giusto che fossero! No:
si ritrovano piuttosto con un paio di vecchi stivali di
plastica, dove hanno navigato altri piedi prima dei
loro, con un “poncho” sdruscito dalle
misure esuberanti e un cappello di ruvido panno in
testa... tutti segni di una liturgia che conferisce
loro l’investitura di pastori del gregge
domestico. Li rivedo muti, accoccolati sotto le loro
umili protezioni, tossire, nella pioggia battente,
compiendo la loro missione di custodi del patrimonio
familiare: le magre pecore del gregge.
I miei bambini li amo!
Cayambe 26 aprile 2006.
PENSIERI CONDIVISI
Fa un freddo cane questa mattina. A me non disturba
perchè da sempre, ho una speciale simpatia per il
freddo e il vento; ma vedo come i confratelli della mia
comunità ne sopportano con pena il rigore, e questo mi
dispiace.
Un’alba fredda come quella che ci accoglie ora al
nostro risveglio, è foriera di un giorno radiante di
sole, perchè nasce da un cielo sereno e senza nubi,
adornato dalla colossale presenza dei 5700 metri del
Cayambe, ammantato da nevi perpetue, che, mentre
abbellisce il territorio con la sua maestosità, si è
attribuito abusivamente funzioni indebite, come quella
di essere il frigorifero della zona!
Fin qui non ci sarebbe nulla da recriminare se non
fosse che sulle sue pendici, su, su... fin dove la
speranza di sopravvivere li conduce, si sono istallati
i poveri più poveri, con le loro “choze”,
le loro capanne di fango dai tetti di paglia. Vivono
lassù, misera corona del nevaio, tristi custodi delle
solitudini, con i loro bambini.
Li trovo ogni tanto e sono loro che mi distraggono dai
pensieri da poeta e mi sospingono fino alle soglie
delle loro umilissime capanne.
E’ questa mia “doppia visione”,
questo sguardo sul loro mondo, che mi affligge. Da un
lato gli spazi silenti di questi nevai, che raccolgono
e offrono solo la perenne armonia del sibilo del vento,
e mi trasportano l’anima a tanti ricordi dei
tempi della mia gioventù, vissuti con gioia sui nostri
monti: le camminate senza fine sui ghiacciai
dell’Adamello, la scalata sulle Torri del
Vajolet, le ascensioni sulla Marmolada, i sentieri e le
conquiste faticose dei Catinacci, o le Cinque Torri del
Falzarego e le Dolomiti di Brenta... Tanti lieti
ricordi.
Ma ora devo abbassare lo sguardo sulla realtà di questi
poveri e i loro piccoli, dalle guance rosse e con le
crepe.
Sono tutti belli questi bambini e, a uno sguardo
superficiale, traggono in inganno; hanno le guance
paffutelle e appaiono a prima vista ben nutriti, ma le
loro pacine gonfie tradiscono subito una denutrizione
dalle radici ataviche. Una tosse pertinace mette in
evidenza problemi che non tarderanno a manifestarsi con
malattie severe.
Sono spesso con loro; mi aiutano a ripercorrere a
ritroso la strada della mia vita, fino a identificarmi
con la realtà loro, che fu la mia di bambino povero. E
mentre provo dentro di me la compiacenza evangelica del
tornare bambino, più facilmente disposto al regalo del
Regno, medito i volti tristi e spesso angosciati dei
loro genitori. Dico “medito” perchè, una
volta ancora, la povertà estrema in cui si dibattono e
che della loro angoscia è generatrice, mi riconduce al
ricordo delle lacrime sofferte dei miei genitori,
quando non avevano a sostegno della loro speranza che
la fiducia nella provvidente carità dei buoni a lenire
il dolore che l’insufficienza dei mezzi per il
pane dei figli depositava giorno dopo giorno
nell’anima loro.
Eravamo allora noi bambini, nella nostra semplicità e
innocenza, a consolare e tergere le loro lacrime, a
richiamare la presenza di un Padre che, nonostante
tutto ci permetteva di vivere nell’unità e
nell’amore.
Ora sto visitando alcuni dei 38 centri infantili dove
un buon numero di queste creature sono accolte e vivono
ore spensierate, anche loro ignare delle pene dei
padri: giocano, ricevono il cibo opportuno e cantano.
Mi sento protetto da queste loro vocine che mi scendono
nell’anima come una preghiera al Signore. Sono
canti che io interpreto come un’intercessione,
che dal cuore dell’innocenza si elevano al cielo
senza interferenze... “Se non diventerete come
bambini, non entrerete mai”.
Mi associo: questi piccoli che si assiepano attorno a
me, mi prendono d’assalto, mi rapiscono con
gratitudine, sono i miei difensori, sono il senso della
mia vita....
Tramonta aprile con la gioia della Pasqua.
Mi son lasciato contagiare in questo tempo di grazia abbondante dal pensiero della generosa offerta del Signore, della salvezza che si ostina a regalarmi.
Mi scopro allora intestardito nel mio affannoso vivere in superficie, senza lasciare campo aperto a Lui nella mia anima, e alla costatazione delle mie pertinaci resistenze all’amore, mi ritrovo umiliato e confuso.
Porto a giro con me questi pensieri e mi sorprendo a soffrirne mentre navigo per gli spazi ampi di queste valli campesine, a portare ai miei poveri il lieto annuncio della felicità della Pasqua.
Mi si aprono orizzonti sognati, che il vento audace di una primavera senza reticenze si incarica di detergere da ogni impurezza per affidare la maestà e la bellezza del paesaggio a perdita d’occhio, all’impero del sole.
E’ un luminoso omaggio al Signore della Pasqua la risurrezione a tutto campo di questa splendida natura andina. Le piogge di primavera, che si dispongono ormai a un doveroso recesso per lasciare libero sfogo all’estate che si annuncia carica di frutti maturi, offre nel frattempo un’assemblea infinita di fiori di ogni specie. Sono fiori di campo che adornano tutte le valli, cospargendole di ogni colore e forma; sono fiori dall’umiltà evidente, senza pretese di nobiltà e gerarchia, fiori che non sopportano il raffronto con la maestà delle rose delle serre, assai numerose nei dintorni, forzate e indotte dalle audaci manipolazioni dell’uomo a raggiungere in tempi brevi un’immagine senza profumo (seguendo l’andamento della società nostra, dove ciò che conta è apparire, figurare, esibirsi...).
Questi fiori delle valli no: sono fiori che vogliono offrire la semplicità delle forme e la delicatezza del profumo intenso e dei colori.
E mentre – come dicevo - mi lascio contagiare da questa natura splendida e generosa, affido all’impetuoso vento della cordigliera, che mi scompiglia, messaggi da portare lontano, gli affido la mia anima stanca, da condurre fino al sepolcro del Signore, che anelo intensamente trovare vuoto.
Eccomi allora all’appuntamento con l’aurora luminosa della Pasqua.
Arrivo in compagnia di coloro che hanno amato Gesù, che custodiscono nel cuore la nostalgia degli affetti reciprocamente corrisposti, o che conservano nell’anima, umiliata dai tradimenti imposti dalla paura e dalla debole umanità, i rimorsi, e vengono ora anche loro a cercare la verità, sostenuti dalla volontà di riscatto, da un profondo desiderio di vita nuova, dal proposito di raccogliere in un otre le lacrime dei pentimenti e la gioia di un perdono amorosamente concesso. Rinasce prepotente la voglia di tornare a raccogliere i passi andati, accanto a Lui, sulle colline di Galilea, dove il soffio del vento di primavera portava da una valle all’altra l’eco delle sue parole di beatitudini nuove, dove qualcosa di vero per sempre era sbocciato.
Arrivo alla sua tomba trafelato e sconvolto, con l’ansia di trovare ribaltata la pietra, le bende nel suolo e il sudario composto, e unire così una fede rinata a quella del discepolo amato che non aveva ancora compreso che il Maestro doveva risorgere.
Mentre conduco fra queste Ande, al filo dei 4000 metri, la mia meditazione pasquale, mi nasce l’impulso di arrivare in fretta a tutte le mie comunità indigene, a spezzare con loro il pane della carità per la fame dei loro bambini, e a cantare con loro la speranza che la Pasqua regala.
Ho voglia di sentire, sulle ali delle nuove certezze, le mie energie duplicate per riprendere, pur nella notte, il viaggio di ritorno da Emmaus a Gerusalemme, e arrivare con le prime luci di un’alba luminosa, con il cuore palpitante di emozione, a riferire ai fratelli che è tutto vero, e che ci aspetta tutti in Galilea, là dove anche l’avventura della mia sequela, tanti anni fa era partita; là dove spero che la mia vita torni a fiorire generosa, senza più tristezze, senza dubbi e tentennamenti, con una fedeltà senza spossatezze, nella gioia della verità e della pace.
Padre Pio Baschirotto